CATASTO ONCIARIO 1753 - TRASCRIZIONE A CURA DI DAVIDE BERRETTINI

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PREFAZIONE

LE "IDENTITÀ RURALI", SCOPERTE GRAZIE AL CATASTO ONCIARIO
DI SIMONE ANGELUCCI

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Straordinario strumento, per l'epoca, doveva essere il Catasto Onciario, ai fini sistematici di censimento e stima che lo "Stato" centrale si apprestava a condurre. E inaspettato strumento, per noi, non solo conoscitivo, ma anche, incredibilmente, narrativo. Si, perché l'Onciario non è un mero elenco di proprietà, né di famiglie con i loro redditi, ma è la connessione descrittiva tra terreni di proprietà, terreni in uso, uso di quei suoli, legame di quegli usi alle località, legame delle famiglie ai quartieri e ai territori, legame delle attività agricole a quelle artigianali, relazioni tra classi sociali e, infine, connessione temporale di generazioni e luoghi.

Proviamo a farne lettura in ambito rurale, ovvero delle attività agricole e zootecniche che si intravedono mediante l'analisi dei diversi proprietari e conduttori di bestiame, e sperimentiamone l'elevato valore dell'analisi ricostruttiva che ci viene restituita, in termini più ampi, ecologici, e persino sociologici. La Caramanico scandagliata dal catasto del 1753, vale la pena ricordarlo, significa un territorio comunale che comprende gran parte delle pendici della Maiella nord-occidentale, estendendosi, allora, oltre che sul territorio compreso negli attuali confini, anche su tutta la alta Valle dell’Orta e su tutto il versante orientale del Morrone, includendo anche gli attuali territori di Sant’Eufemia a Maiella, fino a Roccacaramanico esclusa.

Prima di addentrarci nella vita agro-pastorale della nostra Comunità di oltre 250 anni fa, vale la pena sottolineare che il territorio caramanichese si caratterizzava per una grande disponibilità di ottimi pascoli di alta quota, nelle località oggi denominate Fonte Tettone – Maielletta – Blockhäus – Mucchia di Caramanico - Piana Grande – La Rapina – Pratuccio – Macchiola (oggi su Sant’Eufemia a Maiella).

Il nostro caro Tonino De Angelis si cimenta nel calcolo delle capacità portanti di questi pascoli, attingendo alle fonti documentarie dell’epoca, e ci rivela che i grandi pascoli montani di Caramanico potevano ospitare circa 18000 ovini complessivamente.
Ci si aspetterebbe, dunque, di collocare a pieno Caramanico nella grande epopea della transumanza. Non è così. Il Catasto Onciario ci dice altro. Quanti ovicaprini c'erano posseduti dai Caramanichesi? C’erano, nel 1753, 1014 pecore e 1640 capre: i cittadini di Caramanico erano proprietari di una davvero modesta quota di animali, tra l'altro suddivisi in tante piccolissime proprietà: non armenti, dunque, ma pochi capi di capre e pecore, come vedremo, diffusi un po' in tutte le famiglie. Il Catasto, dunque, senza nulla dirci di usi, consuetudini, gestione zootecnica, ci rivela che questi animali, posseduti dai Caramanichesi, di certo non erano condotti al pascolo sulle praterie sottoposte a fida (comunale), che erano quasi totalmente aggiudicate a locati forestieri, né tantomeno condotti in Puglia, in inverno, come l'immagine dannunziana della transumanza imporrebbe.

Troppe volte la facile e mitica idea “generalista” della transumanza ci ha portato a pensare che tutti i pastori e tutte le pecore d’Abruzzo, per secoli e secoli, fossero coinvolti nelle dinamiche e nelle logiche delle grandi migrazioni verso la Puglia, o per la parte nord occidentale della Regione, verso l’agro maremmano o romano, e ha di fatto quasi annullato la memoria o almeno l’attenzione verso la pastorizia stanziale, che invece rappresenta la vera ossatura dell'allevamento delle aree pedemontane appenniniche. E Caramanico, anche per le tipologie colturali che il Catasto Onciario ci annovera (vigneti, gelsi orti, terreni aratori), oltre che per tutte le altre numerose considerazioni relative all'altimetria, alla geomorfologia, al clima, alla vegetazione, è tipicamente località pedemontana, e non strettamente "montana". Dunque, poche capre e pecore per famiglia, poi riunite, nella bella stagione, affidate a pastori di professione, in greggi che frequentavano le valli, le parti più impervie, o comunque non i pascoli alti, più comodi e produttivi.

Questo sistema di allevamento, o meglio questa “consuetudine zootecnica”, potremmo definirla così, consiste nel raggruppare, per la stagione pascoliva, piccoli gruppi di pecore e capre, appartenenti a diversi proprietari, per raggiungere un numero adeguato di capi tali da consentire la formazione della “morra”. La morra è un gruppo di pecore, quindi, riunite da un certo numero di piccoli e piccolissimi proprietari, che viene condotto mediante l’impiego di un pastore e di un numero adeguato di cani da guardiania e da conduzione (ove presenti) e con una dotazione minima strumentale e un sistema di cooperazione organizzativa che prevede, in varie forme, il contributo di ciascun proprietario. Sotto questa generica affermazione, è chiaro che poi tutto è variabile: il numero delle pecore, il numero dei proprietari, il ruolo dei pastori, le attività in comune, i turni, le modalità di ritiro del latte, e così via: così, per esempio, sempre per restare nell'area pedemontana della Majella, la "morra" di Roccamorice, ancora oggi così chiamata, diventa la “società” di Decontra e di Caramanico (le aree interessate, a memoria diretta di coloro che hanno visto, sono, Decontra, Valle dell'Orfento, con area di svernamento alle "Coste", Sant'Antonio - Piana del Mulino, soprattutto per quelli di Santa Maria e Santa Croce, il Morrone, per quelli di San Nicola e San Maurizio) sistema consolidato la cui denominazione presumiamo derivi e veniva usata, più che dall’attuale accezione e con valenza “imprenditoriale”, come evoluzione della sòcita, assai diffusa forma di proprietà condivisa di animali e campi, soprattutto nel ‘700, sul nostro territorio. Ancora, dall’altra parte della Maiella, negli impervi e fiorenti valloni di Fara San Martino e della Val Serviera, il sistema della "Catarina" della "Puntajurre" a Taranta e, in altre aree dell’Appennino, per esempio lo “nzaio” di Tione degli Abruzzi, sulla montagna del Sirente.
A Caramanico Terme, è ancora vivo il ricordo di queste “società”, due sono rimaste attive fino a 20-30 anni or sono, venivano organizzate nella contrada Decontra, piccolo borgo affacciato sulla Valle dell’Orfento circondato da coltivi, orti, legumi, cereali adattati al clima medio-montano (prima fra tutti la varietà autoctona di grano “solina”), i cui abitanti disponevano, per l’estate, di pascoli di modeste estensioni nella fascia sottostante le grandi e ricche praterie di alta quota (Pianagrande – Maielletta), sottoposte a contratti di fida comunale, riservati per lo più ai grossi proprietari, con greggi transumanti (provenienti dai grandi centri armentizi abruzzesi, per lo più teramani, o pugliesi) e, per l’inverno, di scarsa erba disseminata nei pendii che degradano verso Caramanico (località detta Coste pretarule, oggi bosco di pino nero) che, poiché esposta a sud e poco soggetta ad accumuli duraturi di neve, poteva essere considerata quale mediocre approvvigionamento per i mesi più rigidi. Il sistema cooperativo di Decontra era strutturato sulla partecipazione di un numero limitato di allevatori o agricoltori, ma ciascuno proprietario di un gruppo di pecore discretamente consistente, e la gestione degli animali pianificata in turni di lavoro, proporzionati al numero di capi posseduti, che prevedevano l’espletamento, da parte del pastore/proprietario di turno, di tutte le attività di gestione del gregge, la conduzione, il controllo dei capi e dei parti, la mungitura mattutina e quella serale, la cagliata e la sistemazione del formaggio prodotto in giornata. Essendo, in Decontra come in altri luoghi, i proprietari di pecore anche proprietari di terreni e agricoltori, questo sistema di turnazione rappresentava una irrinunciabile strategia per potersi dedicare anche alle attività di coltivazione, raccolto, lavorazione dei prodotti agricoli, garantendo quella multifunzionalità e quello stato di “micro-multi-reddito” di cui più volte si dovrà parlare in questo libro.

Altra forma di allevamento stanziale di pecore è quella che ci viene segnalata, ancora da testimoni diretti, poiché vigente fino agli anni ’50-’60 del secolo scorso, per il capoluogo del territorio caramanichese: stesso paese quindi, stesso sistema di allevamento non transumante, ma già, a poche centinaia di metri di distanza dalla precedente “morra”, forma di gestione diversa, basata sul conferimento di capi da parte di piccoli proprietari a uno o più pastori di professione, solitamente non proprietari. Questi ultimi abitavano in località Santa Croce e usavano condurre, in estate, le pecore e le capre al pascolo nella parte alta della Valle dell’Orfento. Diverse famiglie caramanichesi, i cui capifamiglia erano impiegati nei più disparati lavori, agricoltori, artigiani, ma anche possidenti, disponevano di alcuni capi di pecore e capre che nei mesi invernali vagavano nei dintorni delle abitazioni, degli orti o delle masserie, spesso custoditi dai figli che, nella fascia di età dai 5 ai 15 anni, erano delegati, quasi certamente loro malgrado, al controllo continuo degli animali. È dunque lecito immaginare che le immediate pertinenze dei nostri villaggi, nei mesi invernali, fossero disseminate di affamati brucatori, che potevano soddisfarsi, si fa per dire, con la vegetazione della poca macchia rimasta libera dalla necessità di coltivare tutta la terra fino all’ultima “coppa”, con cespugli delle zone impervie, erba povera delle zone pietrose o anche con le potature degli alberi, per esempio quelle dei pioppi, che sovente venivano somministrate, soprattutto alle capre. Bene, questo micro-allevamento diffuso, nella tarda primavera veniva riunito (a maggio si iniziava a mungere e a fare il formaggio), per costituire un gruppo di animali che avesse senso condurre in “alpeggio”, come si dice al nord, ovvero per raggiungere una dimensione produttiva tale da poter giustificare l’impiego di almeno un pastore di professione, nella gestione di una stagione pascoliva in valle, con un discreto ritorno sull’investimento ai proprietari. Questo, di fatto, comportava che da giugno alla fine di settembre una sola persona era incaricata di custodire tutte le pecore e le capre dei diversi proprietari e di condurle al pascolo in aree non particolarmente favorevoli dal punto di vista orografico, ma sicuramente ricche dal punto di vista nutrizionale; il pastore quindi, riunite le pecore, le portava nello stazzo principale di Sant’Antonio, nel cuore della Valle dell’Orfento, e di lì si muoveva, durante la stagione estiva, per i pascoli dell’alta valle, in amene località, oggi non più accessibili perché incluse in zona di riserva integrale, che, pur se non facilmente raggiungibili (secondo i criteri dell’uomo moderno…) evidentemente pullulavano di animali, e uomini. D’altra parte, la toponomastica non lascia spazio a dubbi. Quelle che oggi sono aree identificabili come “wilderness”, nei dintorni della cascata della Sfischia, e delle sorgenti del fiume Orfento, erano allora denominate con vocaboli che ne descrivevano la funzione, le caratteristiche, il riferimento nella quotidianità pastorale: ne sono esempi il Piano della Mesa, (mesa in spagnolo vuol dire tavolo, e identifica la tipica formazione rocciosa sopraelevata dalla cima piatta e che possiede solitamente pareti lisce e verticali, caratteristiche tipiche dell’area in questione, ma anche “mesa” intesa come area, circondata da pareti rocciose, idonea a tenere stipati i montoni quando non devono fecondare le pecore; il termine “ammaisare” i montoni, ancora oggi usato da alcuni pastori, probabilmente significa, in modo figurato, mettere nella “mesa” (dial. mèis’ o màis’), nel tipico mobile in legno dove si custodisce il pane, dal greco μάσσω, comprimo, riunisco con le mani, impasto), o anche lo Djaccio Zappone (da ad-jacère, è il pianoro dove si può far sostare il gregge o allestire lo stazzo, con il nome del probabile proprietario o usuale utilizzatore). Il funzionamento di questo allevamento, almeno per quello che sappiamo da chi lo ha direttamente vissuto, è estremamente interessante e ricco di aneddoti. Nella parte alta della valle, come si diceva, in questo luogo chiamato “Sant’Antonio”, da cui oggi inizia appunto la perimetrazione della riserva integrale, e che si raggiunge dal più noto Guado Sant’Antonio, punto di partenza di rinomate escursioni nella faggeta della valle, aveva luogo, costantemente, il contatto tra i proprietari ed il pastore. Questo sgrottamento lineare che scorre parallelo e a ridosso del fiume, ancora oggi annerito dai fuochi giornalieri che erano accesi per caseificare, fare la ricotta e riscaldare il pastore, racchiuso da balze imponenti di roccia umida e sempre immerso nel fragore ininterrotto dell’Orfento, pur se oggi silenzioso, abbandonato e non più nelle attenzioni dei pochi passanti, sembra poter rievocare voci, belati, scampanate, abbai e crepitii che devono aver, per secoli, ravvivato le forre profonde della valle. Una sorta di “interporto montano”, questo doveva essere, e le immagini fotografiche del volo aereo del 1954 su questa zona sono davvero testimonianza diretta e inconfutabile di come tante mulattiere e sentieri, e con essi tanti uomini, asini, pecore e fatiche, convergessero su questa zona.

Come funzionava quindi questo tipo di allevamento? Ciascun proprietario doveva ritirare una quantità di formaggio proporzionata al numero di pecore possedute; ciò determinava una frequenza prestabilita di “visite” del proprietario al pastore, nelle quali ciascuno avrebbe ritirato tutto il formaggio ottenuto dalla mungitura di tutta la morra (delle pecore di tutti i proprietari). Chi doveva quindi, secondo i turni stabiliti, andare a ritirare il proprio prodotto, solitamente partiva il giorno prima dal paese, ma non prima di aver caricato l’asino con tutto l’occorrente per garantire il vitto al pastore, almeno per il giorno stesso del ritiro del formaggio che a lui spettava; percorreva le tre-quattro ore di cammino necessarie e raggiungeva il pastore per la mungitura serale. Dopo aver assistito alla mungitura, il proprietario e il pastore mangiavano insieme, si riposavano, e al mattino, fatta un’altra mungitura e la cagliatura, tutto il formaggio prodotto poteva essere caricato sull’asino e riportato in paese. Dietro questa organizzazione, troppo rapidamente descritta, si nascondeva un fiorire di gesti, usi e situazioni aneddotiche ricorrenti che nessuno ha mai scritto, e qualcuno ha faticosamente ricordato. Pare, per esempio, che l’attenzione alla pratica della mungitura da parte del pastore, fosse tanto accurata quanto abbondante e di qualità il pasto fornito dal proprietario; che quindi, delle grosse e saporite “callare” di pasta con sostanziosi sughi di carne, pane, dove possibile carne e patate (per i proprietari più facoltosi), ma soprattutto grossi fiaschi di vino buono, potessero indurre il pastore a considerare la possibilità di mungere in modo incompleto le pecore per il turno del proprietario precedente, per assicurare una migliore resa della cagliata successiva, al proprietario che gli aveva dimostrato maggior cura nell’approvvigionamento. Pare, ancora, che nella misurazione del latte si verificassero una sorta di piccole, ma inviolabili scorrettezze che nessun proprietario poteva pensare di contestare, quasi a dover riconoscere al pastore di avere sempre “il coltello dalla parte del manico”. Come ricordato dai vecchi pastori e riportato dal De Angelis, il latte era misurato con dei recipienti, spesso in legno di faggio, di diversa grandezza: il “coppo”, di circa due litri, la “smenatora”, meno di metà coppo, e lo “sminicchio”, meno di metà di una smenatora: munte le pecore, nell’atto della conta del latte ottenuto, sembra che il pastore usasse far colmare le misure, anzi il latte doveva trabordare, cadendo in un recipiente di legno sottostante, che alla fine della misurazione avrebbe accolto un discreto quantitativo di latte che sarebbe rimasto al pastore, per una propria cagliata. D’altra parte, la vita del pastore non era certo facile e comoda, alcuni riferiscono della loro capacità di regolarsi sull’orario della mungitura solo osservando le costellazioni durante la notte e la “stella del mattino”, e della loro abitudine a sottostare alle regole e ai tempi del gregge, dormendo poco e male; si racconta che uno in particolare preferisse dormire poggiando il capo su una pietra, per evitare di approfondirsi troppo nel sonno e di svegliarsi in ritardo per la mungitura.

Torniamo dunque ai numeri dell'Onciario: il patrimonio zootecnico presenta una struttura del tutto simile ad altri paesi pedemontani della Majella: 160 buoi aratori, 102 vacche, 110 asini, 64 tra cavalli e giumente, 6 scrofe e, come detto, 1014 pecore e 1640 capre.

Figura 1 Patrimonio zootecnico sul territorio caramanichese nel 1753.


Bovini ed equini utilizzati nei lavori dei campi o dei boschi, e capre che prevalgono sulle pecore. Sembra, quest'ultimo dato del Catasto Onciario, un piccolo dettaglio. Non è così: é una questione zootecnica degna di grande considerazione quella della prevalenza delle capre sulle pecore: siamo ben lontani dalle caratteristiche produttive della transumanza, pecore robuste, merinizzate, grandi produttrici di lana. Qui prevalgono gli animali a spiccata capacità di adattamento, condotti sulla poca erba disponibile tra una coltura e un’altra, o dove non si riesce ad arare e seminare per asperità del terreno; prevalgono gli “sfruttatori della macchia”, condotti in cespuglieti, roveti, arbusteti, nelle numerose località così di frequente denominate, Macchia, Macchia Metola, Macchie di Coco, Macchiola, o a ripulire il sottobosco di Cerreti e Crognaleti.
Ma c'è di più. C'è il quadro sociale in cui questi dati zootecnici vanno collocati, che sono rispondenti all’assetto socio-economico di una collettività la cui sopravvivenza è, anche in questo caso, sostanzialmente garantita da micro-attività agricole diffuse.
Secondo le note statistiche di Davide Berrettini, Caramanico totalizza 469 fuochi e 2340 abitanti (ricordiamo che vi sono comprese anche la collettività di Villa Sant’Eufemia, Villa Ricciardo e Villa San Giacomo, oggi nel Comune di Sant’Eufemia a Maiella). I bracciali sono la larga maggioranza (il 68,5% dei capifamiglia), a dimostrazione che la maggior parte della popolazione era impiegata nei campi, e da lì traeva il necessario per vivere; ma c’è qualcosa in più di molto significativo nella struttura sociale di Caramanico, che di certo aiuta i nostri discorsi sul sistema dell’allevamento ovicaprino: la presenza di Massari e Pastori.

Figura 2 Quadro sociale della comunità caramanichese nel 1753.


I massari censiti e così definiti sono 20, di cui 15 proprietari di bestiame. Il termine massaro, rilevato nei catasti onciari, identifica solitamente un possidente di terreni (Campiese) o di armenti (Massaro di pecore) o ancora un notabile di paese con funzioni sovente di funzionario dell’Universitas o di amministratore di beni, in generale. In altre parole, sono i rappresentanti del ceto borghese, che comunque si fonda sul ricavo delle rendite prevalentemente agricole. Nonostante la loro presenza nella collettività caramanichese, e nonostante la presenza di 127 pastori censiti, la struttura dell’allevamento ovicaprino é, come detto, fatta di piccoli allevamenti, diffusi, sempre accomunati ad altre attività agricole, con capre prevalenti sulle pecore. Tra i cosiddetti massari, chi ne possiede di più conta 130 capre e 14 pecore, un numero ben lungi da poter giustificare una gestione zootecnica autonoma, o addirittura un’attività transumante. I massari di Caramanico, nel ‘700, erano dunque non massari di pecore, come si trovano nei grandi paesi armentizi, ma proprietari terrieri che integravano il reddito anche con limitati investimenti zootecnici, che comunque dovevano prevedere una gestione esternalizzata. A proposito, è particolarmente interessante questo dato: dei 127 pastori censiti, solo 39 possiedono bestiame, ed in particolare 23 sono proprietari di pecore, 13 di pecore e capre, 3 di sole capre. Ma, anche in questo caso, se cercassimo proprietari armentizi tra i pastori di professione, ne saremmo molto delusi: la media dei loro “allevamenti”, per così dire, è di 4,1 per le pecore e di 13,9 per le capre. Un’inequivocabile indicazione, che non lascia dubbi sul fatto che questi numeri non potessero essere gestiti che in ambito locale, stanziale, cooperativo, come piccola risorsa integrativa del reddito. E poi, ci sono gli altri 88 pastori che, non essendo proprietari, devono essere impiegati, evidentemente, per la gestione di capi altrui.

A questo punto, dobbiamo chiederci se le comunità di questo versante della Maiella fossero coinvolte o meno nell’economia armentizia e in che misura, se sono coinvolte nelle dinamiche della transumanza e se sono assimilabili alle società dei grandi paesi armentizi d’Abruzzo, sopra ricordati.
Senza avere la pretesa di addentrarsi troppo nelle questioni economiche, non possiamo fare a meno di riferirci ad alcuni dati storici significativi, antecedenti alla stesura del catasto onciario. Iniziamo da Padre Serafino Razzi, un domenicano che soggiorna a Caramanico nel 1576 e, oltre a far menzione delle acque termali e descrivere interessanti tratti della vita sociale e religiosa del territorio, spesso si sofferma, nelle sue cronache, anche su aspetti relativi alla pastorizia: cita infatti la “chiesetta di Sant’Angelo, edificata sotto una grotta, e sopra il fiume Orfento, alle radici della Maiella. D’intorno a cui si veggono più altre grotte per caprari, e pastori. I quali in tempo d’estate per la comodità dei pascoli, e dell’acque, ci vengono con le loro greggie a passar gli estivi calori”. Padre Razzi dunque ci da’ testimonianza di come, l’attività che abbiamo descritto, di conduzione di capi nella valle, non negli alti pascoli della Maiella, fosse già presente nella seconda metà del XVI secolo e, non a caso, considerate le caratteristiche del territorio e, appunto la gestione “locale” di questo tipo di animali, sono prima citati i caprari, poi i pastori.
Ma altro rilievo importante del Razzi è quello che ci riporta dalla sua visita in Villa Sant’Eufemia dell’8 Aprile 1576. Il frate va per fare due sermoni, e trova una “assai capevole chiesetta, piena per la maggior parte di donne: essendo che i mariti loro, quasi tutti come pastori che eglino sono, si trovano la vernata con le gregge loro in Puglia”.
Dunque, Sant’Eufemia a Maiella, prima inclusa nell’Universitas di Caramanico, paese armentizio e transumante? Cerchiamo una risposta, prima che nel catasto onciario, nei dati della vendita della lana presso la Paranza di Sulmona.

Anzitutto, una premessa necessaria: le informazioni di Padre Razzi vengono da un’epoca particolarmente florida per la transumanza; questa pratica, come tutto l’allevamento ovino e il mercato della lana che da questo derivava, è stata sottoposta, dal noto Alfonso I in poi, ad un’alternanza di fasi fiorenti e di crisi, riconducibili a vari motivi. Per esempio, sempre secondo i dati della Dogana foggiana, il XVII secolo si aprì con una profonda depressione, di base sanitario-ecologica. Le inconsuete intemperie dell’inverno 1611/12 letteralmente decimarono la popolazione ovina abruzzese/pugliese, portando al decremento del bestiame transumante, passato dai 5.177.634 capi del 1601 ai 2.486.698 capi del 1612. Secondo gli studiosi, successivamente l’andamento del mercato laniero subì un’ inversione intorno agli anni ’60 del XVII secolo, quando il patrimonio zootecnico pressoché ricostruito ed una rinnovata domanda di lana sul mercato nazionale ed estero diedero nuovo impulso alla produzione di questa materia prima. In questo quadro generale, Caramanico nel corso del seicento contribuisce in modo relativamente modesto alla produzione di lana: nelle diverse annate censite dal ricercatore Rossi, e cioè negli anni 1623, 1630, 1635, 1645, 1660, 1675, 1691, 1705 i proprietari caramanichesi che conferiscono la lana alla Paranza non superano mai il 4% del totale dei proprietari e, conseguentemente, i quantitativi conferiti erano sempre piuttosto esigui: alla produzione laniera registrata a Sulmona tra enti ecclesiastici, nobili e borghesi conferenti, i nostri produttori difficilmente raggiungono il 2% della produzione totale della Paranza. Ma chi conferiva la lana alla Paranza e quindi ne traeva reddito? Non certo i proprietari delle magre “pagliarole” ammorrate nella valle, ma notabili ed ecclesiastici. In particolare, a Caramanico, la Cappella della SS. Madonna di Santa Maria Maggiore, la Cappella del SS. Sacramento (di Sant'Eufemia), la Cappella di San Nicola (che compare nel 1680), la Cappella del SS. Rosario, che fa affari agli inizi del 1700 e, unico “privato”, il Barone Giuseppe Salerni, che “compare” nel 1635 (in realtà i suoi eredi, poiché egli morì nel ’32) con una discreta produzione, di libbre 7.497, che costituirono circa l’1,5% del totale conferito in Paranza, un record per Caramanico. A testimoniare quanto l’ovinicoltura “di razza” fosse appannaggio della classe dei possidenti e dei clerici per quanto, a Caramanico, con i Salerni, benefattori, vale la pena ricordare che proprio tale Barone Giuseppe Salerni, insieme al fratello Giò Marino e soprattutto al padre Vincenzo fu promotore e finanziatore, una trentina di anni prima, delle finissime e preziose decorazioni dell’Altare della Madonna Assunta che ancora oggi si ammirano nella Chiesa Madre caramanichese, e di altri benefici per la popolazione, come l’istituzione, nel 1630, di un legato di maritaggio.

Incrociando i dati di Rossi con quelli di Piccioni sulla presenza di locati registrati in dogana si conferma il profilo decisamente non armentizio della società caramanichese, anche nell’età della più fiorente transumanza. Nella classifica delle prime 48 località armentizie come numero di locati in diverse annate (1601, 1641, 1705, 1753, 1782) dei secoli XVII e XVIII Caramanico è solo la 37°, con un massimo di 25 locati a metà seicento, ed una graduale diminuzione fino ai 3 locati del 1753, anno delle registrazioni del catasto onciario, anno in cui, tanto per ritrovare ancora il paragone, Castel del Monte ne dichiara ben 184.
E dunque, rispetto al nostro onciario caramanichese: come detto, abbiamo dei massari, proprietari terrieri che integravano il reddito anche con limitati investimenti zootecnici, e 127 pastori censiti, di cui solo 39 possessori di limitatissimi numeri di animali procapite. Questa la lettura “numerica” del catasto, ma se provassimo a fare una lettura geografico/ambientale dello stesso documento ne verrebbe fuori non solo un maggiore dettaglio delle dinamiche pastorali di questa area pedemontana della Majella, ma probabilmente anche una chiave di lettura da adattare a diversi contesti montani abruzzesi.
Se, nel vasto territorio dell’allora Universitas Caramanici, si risale la parte alta del fiume Orta, tenendosi a sinistra l’imponente massiccio della Maiella e, a destra le severe creste del Monte Morrone, avvicinandosi al limite del faggio ed ai rigogliosi pascoli prima annoverati, si trovano quelle che, in quel tempo, venivano identificate con le Ville di Sant’Eufemia, San Giacomo e Villa Ricciardo, oggi interamente comprese nel comune di Sant’Eufemia a Maiella. Bene, dei 127 pastori censiti nel 1753, il 72,4% risiedono nelle tre ville suddette, a testimoniare l’intensa attività di conduzione zootecnica che ivi si era sviluppata, non tanto per la gestione dei propri capi, ma per il mantenimento di quelli dei possidenti e probabilmente di locati o proprietari non caramanichesi. Dei 127 pastori che vivono a Caramanico, solo 43 sono capofamiglia, e di questi ben 42 sono stabiliti tra Sant’Eufemia, San Giacomo e Villa Ricciardo. Come dire, nella parte alta della valle, la conduzione delle pecore al pascolo fa reddito, costituisce l’ossatura portante di una piccola società fatta non di proprietà armentizia, ma fortemente connotata dall’attività armentizia, sia socialmente che economicamente, certamente influenzata dalla dinamica della transumanza in modo diretto, anche nella quotidianità della collettività; ecco, forse, spiegate le parole di Padre Razzi di 177 anni prima, quando notava che, all’inizio di aprile, quasi nessun capofamiglia aveva accompagnato moglie e figli a sentire il predicatore in Chiesa, perché erano tutti in Puglia a condurre le pecore: pecore altrui, non proprie. Pastori di professione e transumanti, dunque, a Sant’Eufemia, pastori stanziali con gestione del gregge collettiva, in morra, e giovanotti costretti a condurre le poche capre e pecore di famiglia nei dintorni del paese, nelle contrade e nelle ville più basse di Caramanico. Anche l’età media lo conferma: c’è una differenza significativa tra l’età media del pastore-professionista-capofamiglia-transumante di Sant’Eufemia, San Giacomo e Villa Ricciardo, 35.5 anni, e del pastore stanziale del “resto” di Caramanico, 26.8 anni, che forse attende di diventare bracciale, scalpellino o tinaro.

Ci sono pastori e pastori in Abruzzo, quindi. Dalle sensazioni sorprendenti e dalle intuizioni colte sulla Morra di Roccamorice, passando per i laboriosi e meritori studi dei ricercatori, per i racconti dei nostri vecchi e per le registrazioni dei catasti onciari, ne abbiamo incontrati diversi. Dai massari di pecore delle grandi località armentizie, proprietari di ingenti numeri e forti datori di lavoro, che però, anche nei luoghi simbolo come Scanno e Castel Del Monte, non arrivano quasi mai a rappresentare neanche il 10% della popolazione, agli addetti professionali all’allevamento transumante, tanto come conduttori diretti, quanto come salariati, che, infine, come conduttori per conto terzi, che sono numerosi soprattutto nei centri montani, ne condizionano l’economia e la società, e alimentano l’epopea della transumanza, nella loro diversità gerarchica, nel loro articolato mansionario, nel loro pittoresco stile di vita, ai pastori di professione, ma residenti, cui vengono affidate le “pecore rimaste”, non transumanti, pochi capi di molte famiglie di braccianti e artigiani, condotti nei pascoli pedemontani, non concessi per costose fide ai forestieri, fino ai pastorelli, che hanno cura delle poche capre e pecore di famiglia, nei dintorni dei nostri centri abitati, delle mura, degli orti. Se è valido l’affresco che abbiamo osato tratteggiare, per quanto manchevole del doveroso controllo degli esperti di storia e delle necessarie sfumature dei sociologi, l’immagine delle tante “pastorizie” d’Abruzzo ci suggerisce anche qualche interpretazione degli elementi e delle caratteristiche zootecniche, sociali ed economiche che ci sono pervenute attraverso gli allevatori attuali, affaticati superstiti cui dobbiamo la possibilità di aver conosciuto la, ancora per poco, vitale identità agri-culturale delle nostre montagne.
Così, come già prima si accennava, se la pecora da lana merinizzata rappresenta il fiorente allevamento transumante e la ricchezza ottenuta dalla lana, la pecora pagliarola, meticcia, adattata, non selezionata, rappresenta le migliaia di piccoli allevamenti non transumanti diffusi in tutti i paesi abruzzesi, e spesso amministrati con forme cooperative stanziali. Se i grandi pascoli primari, al di sopra della faggeta, sono contesi da ricchi possidenti e contribuiscono a mantenere saldi i bilanci dei comuni, i piccoli appezzamenti, le macchie, le forre, le vallate impervie, gli arbusteti a ridosso degli orti, si popolano di capre e pecore di piccolissimi proprietari. Se l’imponente proprietà armentizia plasma le nostre vette e genera immense praterie, spesso a discapito del bosco, la piccola pastorizia stanziale si insinua tra orti e campi di grano, nelle valli e sui modesti pascoli pedemontani. Se i grandi centri armentizi realizzano consistenti produttività, e oggi ereditano una tendenza alla formazione di grandi aziende, che conferiscono notevoli quantità di latte e carne a commercianti e grossisti ovvero si occupano della trasformazione e della vendita dei derivati in grandi e funzionali spacci aziendali, la piccola pastorizia stanziale getta le basi culturali e conforma la consuetudine dell’attuale “autoconsumo”, ovvero di una produzione minima che, sfuggendo alle stringenti regolamentazioni sanitarie, viene destinata per lo più a parenti, amici, amici dei parenti, parenti degli amici.

E si potrebbe continuare all’infinito; pensiamo anche ai prodotti alimentari e ai loro sapori, anche questi sono, ovviamente, figli della biodiversità zootecnica e, dunque, delle diverse tipologie di pastorizia. Prendiamo, per esempio, le stagionature dei formaggi: nei centri armentizi importanti, dove probabilmente di producono enormi quantità di formaggio, durante la stagione di pascolo, l’arte della stagionatura si perfeziona e si differenzia, per necessità di conservare il prodotto più a lungo e in più modi, e ancora oggi, tracce di quest’arte in Abruzzo sono purtroppo confinate solo ad alcune delle più importanti zone armentizie (Assergi-Campo Imperatore, Campotosto, Castel del Monte). Per contro, ci sono i centri pedemontani, con piccoli e piccolissimi allevamenti, e con i sistemi delle morre, ove si produceva poco formaggio, presto consumato o a limite stipato per qualche settimana o mese nella cantina. In queste zone oggi non c’è traccia alcuna delle nozioni o dei metodi di stagionatura, se non quelli di recente appresi dai nuovi imprenditori zootecnici e del campo alimentare.
Ecco dunque la ricchezza del Catasto Onciario. Questo libro ci consegna immagini di grande significato sulla gestione del territorio e l'organizzazione delle comunità che sono immediatamente utilizzabili per comprendere l'evoluzione ecologica dei nostri territori e, soprattutto, per individuarne indirizzi futuri, nel tempo in cui il legame dell'uomo alla terra sembra essere non solo scomparso, ma non più utile alla vita dell'uomo stesso.